RUDOLF ARNHEIM e GIUSEPPE TUCCI

Verso una psicologia dell’Arte (1)
La scelta della forma circolare per un pattern che ha il compito di raffigurare l’universo non è casuale. Il cerchio (o la sfera) è l’unica configurazione che non presceglie alcuna direzione particolare, ed è pertanto usato spontaneamente ovunque per dipingere oggetti la cui forma sia incerta, o priva di importanza, ovvero per raffigurare qualche cosa che non abbia alcuna forma, che possa avere una forma qualsiasi, o che possieda tutte le forme.
Considerata come oggetto visivo, la figura del cerchio è veicolo di due tipi diversi di espressione.
a) Vista come una circonferenza, vale a dire come figura monodimensionale, essa costituisce una linea a curvatura costante, la traccia di una rotazione senza fine. In tal caso, essa è posta in relazione con le forme a spirale e si adatta assai bene a simboleggiare la concezione orientale del tempo come ininterrotto, ciclico Ritorno dell’Identico (al posto della progressione in linea retta, che ha origine nel passato e procede verso una meta infinitamente distante nel futuro).
b) Vista come disco bidimensionale, la figura costituisce una superficie a simmetria centrale, che si espande da un centro in tutte le direzioni ed è cinta ovunque, alla medesima distanza dal centro, dalla barriera del suo contorno. Tale barriera genera una famiglia di vettori costrittivi che procedono dall’esterno verso il centro e contrastano i vettori espansivi che emanano radialmente dal centro. Un confine circolare è sempre sotto tensione come l’involucro di una palla, è sottoposto ad una pressione centrifuga dall’interno e genera una contropressione centripeta resistendo all’espansione. Del significato simbolico di tale dinamica percettiva, connesso alle attività dirette verso un centro e provenienti da esso, ci occuperemo più innanzi. Qui ricorderò soltanto che il movimento rotatorio monodimensionale del cerchio simboleggia spesso il tempo, mentre la dinamica radiale bidimensionale del disco denota relazioni spaziali, siano esse concrete o figurative. (2)
Rudolf Arnheim
1. Arnheim, R., Toward a Psychology of Art, The Regents of the University of California, 1966 [trad. it.: Verso una psicologia dell’Arte, Einaudi, Torino 1966]
2 Id., p. 285
Teoria e pratica del Mandala (1)
1.1 Nacque così lo schema della complessa rappresentazione simbolica di questo dramma della disintegrazione e della reintegrazione, cioè il mandala, nel quale questo duplice processo è espresso per simboli che, ove siano saggiamente letti dall’iniziato, suscitano l’esperienza psicologica liberatrice.
Non si deve pensare che la rappresentazione pittorica del mandala sia propria soltanto dei buddhisti. Questi hanno soltanto elaborato con maggiore precisione un’intuizione antichissima la quale si è venuta con l’andar del tempo chiarendo, mettendo a profitto, almeno per lo schema esteriore, anche concezioni forestiere.
Non è questo il luogo adatto per discutere delle origini della costruzione del mandala, del suo senso e del suo significato, dal momento che in questo libro ci preoccupiamo non tanto del problema delle origini, quanto delle idee di cui il mandala (come è stato sviluppato nelle scuole gnostiche dell’India e nei paesi che hanno accettato l’esperienza indiana) è divenuto il centro e il simbolo. Prendiamo quindi in esame queste idee al momento del loro completo sviluppo, e non dal loro punto di partenza.
Il mandala anzitutto delinea la superficie consacrata e la preserva dall’invadere delle forze disgregatrici simboleggiate in cicli demoniaci. Ma è molto di più di una semplice superficie consacrata e da mantenere pura per scopi rituali e liturgici. Esso è di fatto un cosmogramma, è l’universo intero nel suo schema essenziale, nel suo processo di emanazione e riassorbimento: l’universo non solo nella sua inerte distesa spaziale, ma come rivoluzione temporale; è l’una e l’altra come processo vitale che si svolge da un principio essenziale e rota intorno ad un asse centrale, la montagna Sumeru, l’axis mundi su cui poggia il cielo e che affonda le basi nel sottosuolo misterioso. Questa è una concezione panasiatica cui hanno contribuito a dare chiarezza e precisione le idee cosmografiche espresse nella zikurrat assiro-babilonese, poi riflesse nello schema della città imperiale dei re iranici e quindi nell’immagine ideale della reggia del cakravantin, il monarca universale delle tradizioni indiane. Codeste equivalenze e teorie cosmografiche di origine assiro-babilonese si adattarono tuttavia a primitive intuizioni secondo le quali il sacerdote o il mago delimitano sulla terra una superficie sacra: la quale non solo rappresenta, difesa dalla linea che la conclude, una proiezione delle arcane forze che minacciano la purità del luogo o l’integrità psichica di chi compie la cerimonia, ma è anche, per trasposizione magica, il mondo stesso, dove, ponendosi al centro, il miste si identifica con le forze che regolano l’universo e ne raccoglie in sé la taumaturgica potenza. (2)
1.2 Lo stesso principio regola naturalmente la costruzione dei templi: ogni tempio è un mandala. L’ingresso nel tempio non è soltanto l’ingresso nel luogo consacrato, ma l’entrata nel mysterium magnum. Chi compie con pura consapevolezza il rito di circumambulazione, secondo le regole prescritte e visita in ordine i recessi del Tempio, percorre il meccanismo del mondo, fino a che giunto nel sanctum sanctorum egli è trasfigurato, in quanto raggiungendo il centro mistico dell’edificio sacro, egli si identifica con l’unità primordiale.
Da queste complesse premesse deriva il mandala il quale è una proiezione geometrica del mondo, il mondo ridotto al suo schema essenziale, ma implicitamente, inverandosi, traverso l’identificazione con il suo centro, la trasformazione del miste e così determinandosi le ragioni prime dell’efficacia dell’opera che questi intende compiere, il mandala assume in breve un più profondo significato. Esso restò il paradigma dell’evoluzione e dell’involuzione cosmica, ma chi se ne serviva non fu più soltanto sollecito di un ritorno, al centro dell’universo, quanto piuttosto di un rifluire delle esperienze della psiche alla concentrazione, per ritrovare l’unità della coscienza, raccolta e non distratta, e per scoprire il principio ideale delle cose. Il mandala allora non è più un cosmogramma, ma uno psicocosmogramma, lo schema della disintegrazione dall’uno al molto e della reintegrazione dal molto all’uno, a quella coscienza assoluta, intera e luminosa, che lo yoga fa nuovamente brillare in fondo all’essere nostro.
L’esperienza suggeriva anche in questo caso delle rappresentazioni analoghe. L’uomo pone nel centro di sé medesimo il principio recondito della propria vita, il seme divino, la propria misteriosa essenza; egli ha la vana intuizione di una luce che brucia dentro di lui e che s’espande e propaga; tutta la sua personalità in quella luce si incentra e intorno a quella si svolge.(3)
1.3 Disegnare un mandala non è una cosa semplice; è un rito, che mira ad una palingenesi dell’individuo e ai cui particolari questo deve partecipare con tutta l’attenzione che l’importanza del risultato da ottenere richiede: un errore, una svista, o una dimenticanza rendono l’opera inefficace. Non solo perché, come in ogni atto magico e rituale, la perfezione è garanzia del successo, ma anche perché ogni manchevolezza è il segno della disattenzione del sacrificante, indica che egli non vi prende parte con tutta la concentrazione e il raccoglimento dovuti: quindi mancano le condizioni psicologiche in virtù delle quali si produce nel suo spirito il processo di redenzione. Ciò spiega come i maestri buddhisti abbiano con grande minuzia discusso sulle regole da seguire nella costruzione del mandala. Essi cominciano con il determinare, per esempio, la qualità della cordicella che conviene adoperare per segnare il tracciato delle singole parti, della materia di cui deve essere composta, di quanti fili attorcigliati insieme debba risultare, prescrivendo che questi siano cinque e ciascuno di un colore. Questa cordicella intinta nella polvere colorata è indispensabile per delimitare le parti del mandala: adagiatala sulla superficie dove il mandala si deve disegnare, se ne fissano i capi tenendoli ben tesi; poi con due dita sollevandola e lasciandola improvvisamente cadere quella sparge la polvere di cui è intrisa. Così si ottiene il tracciato fondamentale sul quale si inseriscono i successivi disegni. I trattati ugualmente prescrivono le misure di cotesta cordicella e i riti purificatori dei vari strumenti che serviranno per l’atto rituale.
...In linea generale si può dire che il mandala risulta di una cintura esterna e di uno o più cerchi concentrici, i quali racchiudono a loro volta la figura di un quadrato diviso da linee trasversali; queste partono dal centro e toccano i quattro angoli così che la superficie resta sezionata in quattro triangoli: nel centro e in mezzo a ciascun triangolo cinque cerchi contengono figure di divinità o emblemi.
Del simbolismo delle singole parti in appresso faremo parola; ma intanto conviene subito dire che a questo paradigma di linee essenziali si sovrappone uno schema più complesso nel quale ciascun elemento ha un significato ed anche un nome particolare.(4)
1.4 Conosciamo ora lo schema elementare del mandala: abbiamo per così dire ricostruito la sua ossatura, abbiamo descritto lo schema delle linee che lo determinano, lo dividono in parti, lo sezionano. Ma tutto questo è il diagramma esteriore: dobbiamo ora vedere che cosa si debba disegnare sulla sua superficie, quale sia il significato simbolico delle figure che vi si dovranno disegnare, e soprattutto come il miste dovrà leggere questo groviglio di geroglifici, e come traverso quelle imagini risalire al senso arcano che esse adombrano.
Il mandala, come si vede, è diviso nell’interno in cinque settori, siccome ai quattro lati di un’imagine o di un simbolo centrale si dispongono nei quattro punti cardinali altre quattro imagini o simboli. Bisogna però guardarsi dall’intendere questa partizione nel primitivo senso, quello cosmografico. Qui la disposizione quinaria delle imagini e dei simboli non segna soltanto i quattro punti cardinali rotanti intorno ad un centro (5) che li condiziona così svolgendo intorno a sé la successione spazio-temporale, ma assume un significato psicologico: il mandala è sì il tutto, ma il tutto medesimo in quanto riflesso nell’io; i cinque punti segnati nel mandala sono adeguati ai cinque elementi costitutivi della personalità umana, incentrata intorno al principio cosciente, nucleo dell’individuo, la causa del samsâra e insieme del ritorno.
Adeguato il macrocosmo al microcosmo questo prevale su quello, nella simbologia esoterica: non già come sostegno fisico, ma come complesso psichico, perché la revulsione della psiche e non altro si deve infatti compiere. (6)
1.5 Per coteste ragioni la presenza effettiva delle imagini sulla superficie del mandala non è necessaria: invece della loro rappresentazione, basta il simbolo sillabico, la misteriosa matrice della loro forma. Si ricordi che anzi questi mantra sono più reali dell’imagine, perché questa è un’apparenza adeguata alla nostra limitazione carmica, è una figura in virtù della quale ciò che non ha forma diventa, con un artificio, a noi accessibile, una veste da noi stessi imaginata, sotto la quale si cela una essenza invisibile, sebbene, per così dire, immediatamente sensibile nel raccoglimento della meditazione che di quella ci faccia partecipi. In altre parole c’è un rapporto di reciprocità fra l’essere che si rivela e la persona cui si rivela. In virtù di tale reciprocità quest’ultima, in certo senso, foggia essa stessa l’aspetto del primo, adattandolo al suo modo di concepire e alla sua maturità carmica...(7)
1.6 La liturgia che accompagna la costruzione e il disegno del mandala è molto complessa. Anzitutto essa presuppone di regola la presenza di un maestro che compie la cerimonia e di uno o più discepoli che abbiano chiesto di essere iniziati ai misteri rivelati in forma simbolica da quei mandala. L’accesso al mandala è infatti il compimento del lungo e paziente tirocinio, la prova della maturità spirituale che il maestro ha riconosciuto nei neofiti. La preparazione scolastica e dottrinale ha eliminato a poco a poco l’ignoranza che offusca l’intelletto, quegli errori e quelle incertezze che sono proprie dell’esperienza terrena. Si richiede ora il battesimo per cancellare le macchie congenite, quelle che fatalmente accompagnano la nostra limitazione umana: un sacramento che ci aiuti a inverare in noi la revulsione da questo all’altro piano e faciliti, con un dramma psicologico che sconvolge la nostra vita interiore, il ritorno e la palingenesi.
La prima cosa da farsi è la purificazione dell’offiziante. Nessuno può intraprendere un rito se non è spiritualmente e anche fisicamente puro: astinenza digiuno e bagno sono regolarmente prescritti.
La scelta del luogo e del tempo è soggetta a molta cautela. Bisogna scegliere un giorno propizio e un luogo solitario vicino alla riva del fiume o del mare o a nord di una città, o la cappella di un tempio; poi si deve preparare il terreno sul quale si ha intenzione di disegnare il mandala; si toglieranno i sassi, i carboni, ogni avanzo animale che per caso vi sia. Il terreno deve essere piano, levigato, per indicare già in questa sua apparenza l’analogia con il piano trascendente, il piano adamantino nel quale il mandala viene ad essere trasfigurato appena il rito è compiuto. Poi bisogna eliminare i demoni...(8)
1.7 Quindi la lettura del mandala, il rivivere nell’intimo della propria coscienza i momenti che esso rappresenta, percorrendo spiritualmente e in ordine i vari stadi che sono proiettati simbolicamente sulla sua superfice, produce una lisi. A poco a poco, passando per gradi da un settore ad un altro del suo diagramma, cioè da uno stato interiore ad un altro successivo e più completo e che non annulla il precedente ma lo supera in se medesimo contenendolo, il neofita è giunto al punto centrale. Ciò può avvenire materialmente, come accade nei grandi mandala adoperati per le cerimonie iniziatiche quando egli, percorrendo la varie parti del mandala, si viene a trovare nel centro con la sua persona fisica, che allora in sé sperimenta la catarsi mandalica, oppure mentalmente quando, concentrandosi su i disegni del mandala, realizzi in se medesimo la verità da quello adombrata. Naturalmente questo punto centrale è il quinto punto, il punto estremo capace di una rappresentazione visibile: fuori, al di sopra è il sesto punto, l’altro piano, il Vajradhara, nel quale il miste si annulla, dal centro mandalico, così raggiunto, penetrando nella sua lucentezza con una revulsione di piano che si determina improvvisa ed immediata.
La revulsione è questione di un istante: quanto si è penetrata la verità o la essenza divina, si conosce tutto (Isvarapratyabhijñâvimarsinî of Abhinavagupta, vol. III, pag. 407, v. 10).
Pertanto il processo si appalesa agli occhi del miste, debitamente iniziato, come un immenso, mobile mandala che ora si proietta nel folgoramento dei suoi simboli visibili, splendenti imagini di dei aureolati di gloria celeste ed abbaglianti, ed ora si riassorbe nel punto centrale, immota stella che in sé tutto riassorbe e da cui tutto con vicenda alterna emana. Ma egli è quel centro, idealmente, identificando il mistico loto sulla sommità della propria testa con quel punto, inesausta matrice di tutto ciò che è, fu e sarà. Siamo quindi necessariamente portati a parlare di questa fase suprema, di questa trasposizione del mandala nel corpo del miste. (9)
Giuseppe Tucci
1 Tucci, G., Teoria e Pratica del Mandala, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma 1969
2 Id., p. 36
3 Id., p. 39
4 Id., p. 52
5 La condizione indefettibile, aksharam padam (Guhyasamaja, p. 90)
6 Teoria e pratica del Mandala, p. 63
7 Id., p. 78
8 Id., p. 99
9 Id., p. 120